Uno dei più grandi batteristi della musica italiana ci racconta il “suo” Lucio.
di Giorgio Azzollini, consulenza di Michele Neri
Un musicista che ha composto Pugni chiusi, che ha suonato da protagonista su Anima latina e altri importanti dischi di Lucio, che è a tutt’oggi l’unico punto fermo di ogni esibizione live di Adriano Celentano, che ha tenuto il ritmo nello storico duetto tra Lucio Battisti e Mina, è sicuramente a posto con la sua “coscienza” di musicista e non ha bisogno di altra presentazione… Signori… Gianni Dall’Aglio.
Nel 1972 hai realizzato il tuo primo album solista, Sera, mattina (ristampato su cd nel 1993), che è anche il primo disco dell’etichetta di Mariano Detto, la Love Records.
Quel disco l’ho fatto nei ritagli di tempo che il mio lavoro principale, session man, mi concedeva.
Lavoravo con Lucio, ma ero restio a portargli le mie cose: mi ero messo in testa che lui mi percepiva solo come batterista.
Si è reso conto della mia vena compositiva e creativa quando ho fatto con il Volo il secondo album, al cui interno figuravano due mie composizioni [tra cui Sonno ndr]. E ricordo che le aveva sentite. Però Lucio non era molto “espansivo” [risatina].
Non si curava troppo delle cose che non fossero sue. Era molto concentrato su tutto ciò che veniva da lui ed erano talmente presi, lui e Mogol, da queste continue produzioni, sfornavano canzoni praticamente ogni giorno, che non c’era molto spazio per ascoltare cose di altri, anche semplicemente il lavoro dei suoi musicisti. Non c’era spazio neanche per parlare della musica degli altri. Non si discuteva mai di altri artisti, di altre cose. Si faceva qualche citazione in riferimento a un’idea. A lui piaceva molto la musica soul, in particolare la Tamla Motown. Eravamo molto in sintonia, amavamo molto quelle ritmiche, quegli arrangiamenti, quel modo di cantare. A lui non serviva a niente perché non cantava come i neri, però, in fondo, c’era un groove ritmico che riportava molto alla musica che piaceva a tutti e due.
Eravamo un po’ tutti coinvolti in questa sua personalità artistica ma nessuno era talmente in confidenza da chiedergli pareri personali sui propri lavori.
Lui era Lucio: in sala d’incisione ci faceva partecipare, coinvolgeva un po’ tutti nelle sue strategie musicali ma eravamo restii a fargli sentire le nostre cose.
Lucio non fu molto contento del vostro lavoro per le registrazioni dell’album del 1975…
In quel periodo, noi del Volo, come ritmica e come gruppo, facevamo un po’ quello che i Toto facevano in America.
A noi chiedevano di arrangiare e di costruire un album intorno a un artista già conosciuto. Ad esempio con la Bertè registrammo tutto un album, mi pare T.I.R. [sul quale compare anche Le tre verità, ndr] o Normale o super prodotto da Mario Lavezzi, facendo sperimentazioni.
Il Volo in quel momento era un gruppo trainante e d’avanguardia e avevamo una ritmica collaudata.
Gli altri erano stimolati dall’avere questa formazione che permetteva di fare lavori completamente nuovi, con sonorità diverse.
Lucio chiese a noi del Volo con l’aggiunta di Mario Lavezzi [che amava davvero Lucio e, nonostante questo, raramente riusciva ad arrivare a fare queste collaborazioni, mentre io, Radius, Callero e Tempera eravamo abbastanza inseriti] di fare questo lavoro, ma ancora non sapevamo che sarebbe diventato La batteria, il contrabbasso….
Ci siamo messi sotto, a Erba, al Mulino, come era avvenuto altre volte. Abbiamo fatto quest’album in piena armonia e con grande creatività.
Lucio ci proponeva delle cose e noi le interpretavamo e ci mettevamo, come sempre, qualcosa di nostro. Una sorta di co-creazione fra vari elementi e reparti della band. Mi sembrava fossero uscite delle belle cose. Alla fine eravamo pronti per incidere, avevamo fatto praticamente tutta la produzione tranne Ancora tu [me la canticchia], che ancora non esisteva, suppongo.
Un lavoro massacrante perché era in primavera/estate, caldo, impegno, tutto… A lavoro finito, come sempre avveniva, c’era l’ascolto definitivo da parte di Giulio. Non veniva mai mentre si registrava, ma solo alla fine. Era una specie di sorpresa che Lucio faceva a Mogol: «Senti un po’ com’è adesso quello che abbiamo fatto in embrione prima io e te… Senti, c’è già la base…». E lui gliele cantava al momento, con una chitarrina. Era quasi un preascolto definitivo, senza violini, cori…
Giulio non ebbe subito una reazione di grande entusiasmo, ero quasi perplesso. C’era molta sintonia fra loro e bastavano pochi sguardi perché si capissero. Lucio deve aver capito qualcosa in quel senso. Abbiamo ascoltato il tutto poi loro hanno iniziato a parlare e noi siamo usciti perché eravamo stanchi a forza di sentire ‘sti pezzi e volevamo andarcene a casa. Qualche settimana dopo, qualcuno, non ricordo chi, mi ha chiamato dicendomi che il lavoro non convinceva del tutto Lucio e molto probabilmente avrebbe rifatto qualcosa, anche se non si capiva se l’avrebbe fatto con noi. Io non avevo alcun dubbio, non immaginavo Lucio con altre ritmiche. Aveva sempre lavorato con noi.
Claudio Pascoli, che era il sassofonista aggiunto al Volo e che era uno di quelli che Lucio utilizzava per fare soli coi fiati, aveva ricevuto da Lucio la richiesta di trovargli dei musicisti giovani, bravi, nuovi. Claudio gli propose il gruppo di ragazzi di Milano con il quale stava lavorando all’epoca, Walter Calloni e il bassista di cui non mi viene il nome [Hugh Bullen ndr]. Il disco richiese ancora tre mesi di lavorazione perché rifecero praticamente tutto, anche se tennero buone le nostre versioni di Io ti venderei e Il veliero, mentre altre cose che avevamo fatto non videro mai la luce. Il resto fu suonato, quindi, da questa nuova generazione che proprio lì incominciò la collaborazione con Lucio.
Ho esaminato per lungo tempo la cosa, ma non volevo andare direttamente a parlarne con Lucio perché lo rispettavo profondamente e non avevo alcuna intenzione di discutere le sue scelte, le sue decisioni. In quel periodo avevamo qualche problemino con Giulio. Era nata una discussione tra Radius e Mogol che aveva incrinato un po’ il rapporto idilliaco che c’era tra il gruppo e Giulio e, soprattutto, si era dissolta l’armonia che c’era tra Radius e Mogol. Probabilmente il giudizio di Giulio influenzò non poco Lucio: «Questa ritmica, queste cose sono tutte un po’ uguali. Va a finire che fai una cosa come la fa il Volo: tu devi essere Lucio Battisti, non dev’esserci alcun riferimento con altri, con il Volo, con il loro sound, con le loro sonorità». Questo non mi è mai andato giù e mi sono ripromesso di domandarlo a Giulio. L’occasione c’è stata alla festa dei 40 anni di matrimonio di Adriano Celentano, lo scorso luglio. Mogol è sempre stato bravissimo a dribblare le situazioni scomode in modo molto convincente e mi ha detto: «No, no, guarda che era Lucio a prendere l’ultima decisione. Lucio decideva delle cose inerenti la musica, lo sai, io ero addetto ai testi. A lavoro finito dicevo la mia, però per quanto riguardava la costruzione e gli arrangiamenti è sempre stato Lucio a decidere. È stata quindi una sua scelta. Forse voleva cambiare. Forse non era soddisfatto di alcune cose». Evidentemente c’era bisogno di un rimpasto migliorativo, perché con gli altri fece uscire anche il pezzo trainante che con noi ancora non c’era. Forse il fatto di cambiare gli arrangiamenti e i musicisti è stato per lui una cosa nuova e stimolante, un’energia in più che si è dato. Tutto sommato è stata per lui un’opportunità che lo ha portato a migliorare le cose.
Su Anima Latina le parti di batteria erano inizialmente assegnate a Francesco Lo Previte perché tu eri impegnato col Volo. Battisti però, molto scontento di Lo Previte, ti fece risuonare tutto. È vero che alcune sovraincisioni le fece anche Tony Esposito?
Noi avevamo fatto assieme a Lucio anche Il mio canto libero così come”Il nostro caro angelo. Si trovava bene a lavorare con noi e anche le vendite erano state più che buone. Come si dice: «squadra che vince non si cambia». Essendoci anche divertiti, evidentemente si sentiva più sicuro. È una cosa che dico per la prima volta, ma è una cosa vera. Una sensazione forte che ho provato. Anche con altri. Quindi dopo quei due album gli venne naturale chiamare noi.
Mi ricordo di aver suonato un sacco di percussioni oltre alla batteria e loro, molto carinamente, lo hanno scritto con precisione sul disco.. È l’album di cui più sono fiero. È l’album più bello per me. Il più interessante di Lucio. Quindi non mi risulta quello che dici e cioè che aveva chiesto ad altri musicisti. Di Tony Esposito proprio non ricordo. E Lo Previte non mi sembra proprio che bazzicasse nel giro della Numero Uno a quel tempo.
Sono molto legato a quel disco perché mi ha dato molto. Anche per come è stato costruito. Il primo lavoro di grande libertà e di co-creatività. Io mettevo lì un’idea e Lucio quasi sempre diceva: «È bella, è bella. Dai, andiamo avanti così». Era proprio un lavoro di gruppo e una bella gratificazione. Era un gruppo che lavorava.
Hai suonato anche nel disco di Ivano Fossati e Oscar Prudente Poco prima dell’aurora che fu registrato nella tarda estate del 1973 alla Fonorama contemporaneamente a Il nostro caro angelo. Pare che Fossati sia intervenuto sul disco di Battisti e viceversa, nessuno però sembra ricordare niente di preciso.
Gli album si facevano a tempo pieno. Quando lavoravo con Lucio ero con lui. Così come quando lavoravo con Fossati. Non mi ricordo di episodi insieme. Escluderei che l’uno o l’altro abbiano collaborato ai dischi altrui.
La differenza era nel fatto che con Fossati il lavoro durava una, due settimane, mentre con Lucio non erano mai meno di quattro ed erano cifre che solo Celentano, oltre a lui, poteva permettersi. E non era solo per i soldi. Con Lucio era differente il criterio di costruzione dei pezzi e gli arrangiamenti. Lui non arrivava in sala con gli arrangiamenti fatti. Arrivava con una bozza di idee e poi si creava tutto lì. In una settimana ho fatto il disco con Fossati e, subito dopo, quasi accavallandomi, ho fatto Il nostro caro angelo.
In Non prego per me di Mino Reitano avete suonato voi Ribelli al completo più Battisti alla chitarra acustica.
Può essere. Quando lavorava con gli artisti che facevano i suoi pezzi, Lucio veniva in sala.
Quando noi abbiamo fatto Per una lira però non è venuto; era proprio agli inizi e si è fidato di noi Ribelli, anzi, è nata da lì la nostra collaborazione. Gli era piaciuto molto come l’avevamo suonata, in diretta alla Phonogram in piazza Cavour. È stato il primo pezzo fatto dai Ribelli in diretta assieme all’orchestra. Gli è talmente piaciuta la nostra versione che ci chiese di suonare anche in quella che avrebbe cantato lui. Ne aveva fatto due versioni in realtà: una con i Dik Dik e l’altra con noi. Ha sentito che suonavamo bene e ha voluto continuare con me e il bassista e infatti poi abbiamo suonato in un sacco di pezzi suoi.
Proprio quest’anno ho fatto una lista dei pezzi in cui ho lavorato prima che la memoria mi tradisca.
Allora, nel 1968 ho registrato in Prigioniero del mondo, La mia canzone per Maria, Io vivrò e 29 settembre, nel 1969 ho fatto Un’avventura e Non è Francesca, poi Nel sole, nel vento, nel sorriso e nel pianto e, come ho detto, in Per una lira. Poi i tre album di cui abbiamo già parlato.
Damiano Dattoli ricorda di aver fatto assieme a te la maggior parte delle ritmiche del periodo fra il 1967 e il 1969 e che all’organo c’era spesso Demetrio Stratos.
In realtà non mi ricordo. Può essere che ci fosse Demetrio all’organo. Può darsi che Dattoli abbia più memoria di me.
So che Demetrio aveva l’organo giusto, aveva il C3, ed era bravo, lo suonava bene, molto bene. Era sicuramente all’altezza, però, in quei momenti, c’erano situazioni diverse, chiamavano anche altri. Quindi non te lo posso confermare, ma non mi sento di escluderlo.
Nella vostra versione di Nel sole, nel vento… Lucio suonava il pianoforte.
Eravamo già alla Ricordi. Però non ho ben chiaro nella memoria i particolari. Certamente c’era e molto probabilmente ha fatto anche qualcosa. Escludo sicuramente voci, cori e cose del genere.
A Teatro 10, verso la fine di aprile del 1972, avevate avuto un grosso successo nel duetto fra Lucio e Mina.
Noi ci siamo molto divertiti. È stata una cosa magica. Nessuno di noi avrebbe immaginato che nel tempo sarebbe diventata un’immagine così preziosa nell’ambito della musica italiana. Un po’ di gloria però l’abbiamo provata subito, al momento, quando i musicisti che erano presenti e che facevano parte della famosa Orchestra della Rai di Roma, alla fine della performance, quando mi ero girato verso il batterista che conoscevo e stimavo, si erano alzati in piedi ad applaudire. Lì ho provato un’emozione enorme. Pensavo «Ma come? Si sono alzati per applaudirci?».
C’era molta energia e gli stessi musicisti l’avevano colta e apprezzata. Al di là del fatto che davanti c’erano Lucio e Mina, dietro c’era una band eccezionale. C’era molta empatia: loro potevano fare quello che volevano e noi andavamo con loro. Avrebbero potuto cambiare pezzo o solo un finale e noi gli saremmo andati dietro. Non avevamo provato nemmeno troppo. Con Mina avevamo fatto nel pomeriggio un paio di volte tutto il medley e con Lucio abbiamo provato… un po’ in treno mentre andavamo a Roma. C’era Massimo Luca alla chitarra acustica, io alla batteria, Angel Salvador, il bassista dei Ribelli che è quello con cui facevo tutte le ritmiche, poi sostituito da Bob Callero, Gabriele Lorenzi alla tastiera e poi un chitarrista di Torino di cui non ricordo mai il nome [Eugenio Guarraia] alla chitarra elettrica. Ho comprato di recente dalla Fonit Cetra la videocassetta con l’intera esecuzione. Con Lucio che ci presenta come il suo gruppo, quelli di Milano. Noi siamo passati poi per “quelli di Milano”.
Hai qualche ricordo particolare?
Ogni volta che ci vedevamo Lucio mi diceva, con quella sua vocina un po’ così (imita un romanesco casereccio in falsetto): «Aò, ma tu, di dove sei?». «Io sono di Mantova.» gli rispondevo. «Aò, ma ‘ndò sta Mantova?». E mi faceva incazzare questa cosa e me la ripeteva sempre. E io: «Come andò sta Mantova! Mantova sta in Lombardia!». Ma lui continuava: «’Ndò sta la Lombardia?».
Con lui si lavorava bene. Era il piacere di suonare con lui. Creava una tensione positiva che dava energia.
Noi due potevamo essere degli amanti come musicisti, degli amanti perfetti. Sapevamo poco l’uno dell’altro però, quando si arrivava in sala d’incisione, eravamo uno attaccato all’altro perfettamente, in sintonia perfetta. Della vite private reciproche a nessuno dei due interessava molto. Lui conosceva mia moglie, io conoscevo quella che poi è diventata sua moglie, perché lavorava nel Clan come segretaria, però non ci interessavano tanto queste cose: «Cos’hai fatto questa estate? Dove andrai? Che moto hai?». Niente, zero. Due parole due e basta. Ogni volta che ci si vedeva sembrava che ci si fosse lasciati il giorno prima, mentre magari erano passati sei mesi. Perché si entrava subito nella musica.
Arrivava con le sue canzoni, me le “spiattava” lì davanti con la chitarra dicendo: «Aò, beccate questa!» e cominciava con un pezzo che poteva essere Anima latina, Il mio canto libero. Me la faceva ascoltare una prima volta: «In un mondo che…». Andavo subito alla batteria e cominciavo a suonargli dietro perché anche se la sentivo una volta sola mi facevo una mia idea.
E lui, se andava bene, diceva: «Gajarda! Aò, famo in fretta. Gianni, va bene quello che fai e tu Bob, famme sentì ‘sto basso».
E lui, con la voce, glielo faceva sentire: «Tu tu tum, tu tum putum tu tu…».
«Mò proviamo a suona’» e ci faceva incidere già il provino. Capisci che già lì c’erano i tessuti ritmici dell’arrangiamento.
Non è Francesca doveva essere un pezzo acustico, con la chitarra e qualche violino e basta. Quel giorno avremmo dovuto fare due o tre pezzi suoi. Ce la fece sentire e poi la provammo. Durante il pezzo la batteria non c’è ma solo alla fine, quando lui con la chitarra fa: «tà taaa, tà taaa, ciaka kuku, ciaka kuku, tà taaa». Con quell’accento, quel marcamento.
Mi è venuto spontaneo. L’ha fatto solo una volta. Stavamo ancora provando ma avevamo tutti i microfoni accesi, avevamo le cuffie. Mi sono messo lì, pian pianino, a suonare libero, facendo una cosa che piaceva a me. Pensavo: «Tanto ha detto che il pezzo è finito, andiamo avanti, divertiamoci».
E anche lui, senza dire niente, andava avanti. Vedevo che ogni tanto mi guardava e ridacchiava. Mi guardava e rideva. Ho fatto tutti quei feel che erano fuori da qualsiasi schema. In quel brano, fare un finale così lungo con tutto quel pezzo di batteria che anticipava il «Tà taaa, do do do, dagudù, dagudà, tà taaa…». Questa cosa è andata avanti per almeno due, tre minuti, anche quattro. La canzone durava meno del finale.
Finito il pezzo ho detto: «Bello ‘sto pezzo, mi sono divertito!».
E lui: «Aò, ragà, così è ‘na bbomba! Il pezzo lo famo così, lo tenemo così. Gli metto su gli archi. A Giampiero!».
C’era anche Reverberi in sala e lui: «Aò, tutto quello che fa Gianni cò ‘a batteria me lo devi fa’ fa’ co’ i archi».
E, infatti, hanno costruito sui miei feel quella frase dei fiati e dei violini che si preparano sempre e fanno: «tà taaa, digogiga, digogiga, dididì, tà taaa…».
È venuta fuori una cosa al contrario, dalla batteria hanno tirato fuori le idee, l’arrangiamento. Una cosa che mi ha fatto molto piacere.
Però non ci credevo. Quando siamo andati via, mi dicevo che era impossibile che l’avrebbero realizzata in quel modo.
Invece, quando sono passato alla Ricordi e mi hanno dato le mie due copie del disco come usavano fare sempre (una la davo a casa e l’altra la regalavo quasi subito, di più no perché dicevano che costava troppo), come l’ho sentito ho detto: «Oh, la Madonna! Allora l’han tenuto davvero! Bello, sono contento!».
Quando poi ho rivisto Lucio qualche mese dopo mi ha detto: «Aò, gajardo, hai visto? Te l’avevo detto che facevamo ‘na cosa la fine del mondo. Ne ha parlato tutta la stampa!». Perché lui era sempre molto entusiasta delle sue cose. Ne parlava molto volentieri. Erano degli eventi. Era molto carino. Probabilmente una reazione alla sua timidezza lo faceva diventare quasi uno sbruffone: io sono il migliore. In realtà era solo timidezza.
Vi siete più visti dopo?
L’ultima volta che sono andato a casa sua al Dosso ero con Adriano. Ma eravamo entrambi legati alle rispettive vite private.
Con Panella?
A me è sempre piaciuto. L’ho sempre apprezzato. Come era creativo, innovativo negli anni in cui ho collaborato con lui come musicista, altrettanto coerentemente lo è stato dopo. Se si fosse fermato alla sua vena melodica, avrebbe probabilmente venduto ancora moltissimo, ma non gli sarebbe servito per la sua crescita di musicista. Aveva dato tutto quello che doveva dare in quella sfera melodica innovatrice degli anni Settanta e Ottanta. Era giusta un’evoluzione. Trovo giusto che abbia deciso di fare cose nuove anche con i testi. Poi c’è stato qualcosa di altrettanto interessante, come Don Giovanni. Io li ho tutti i suoi album dopo Mogol. E tutti mi sono piaciuti ad eccezione di qualcosa qua e là. Una cosa gli avrei detto, se l’avessi incontrato o ne avessi avuto la possibilità, l’avrei sgridato: «Almeno tu, ti prego, non usare la batteria elettronica se puoi».
E invece non ho mai avuto il modo di dirglielo. Se n’è andato prima. Però il ricordo è sempre vivo e la cosa bella di un artista come lui è che risulta quasi immortale attraverso le sue opere. Ne stiamo parlando come fosse vivo e in realtà lo è.
Un’altra cosa vorrei dire. Certamente non gli avrebbe fatto piacere sentire i suoi pezzi nei pub e nei piano-bar, perché lui era un po’ geloso delle sue cose. Se potesse girare nei locali gli girerebbero le palle nel sentire le sue canzoni fatte e ascoltate in modo così popolare, tra una bevuta e l’altra.